Certo, certo, la gloria ch’ebbe un fuoco di gioventù rimesta tra le ceneri il suo tizzo orgoglioso, ma noi teneri di noi non fummo, né prendemmo a gioco la vita come un’ultima scommessa. Noi, di quegli anni facili, all’azzardo delle fiorite preferimmo il cardo selvatico, le spine. Dalla ressa del giubilo scampati al nostro intento d’essere sole e pietra, nelle mani segnammo la tenacia del domani da scavare nel tempo. Nello stento d’essere soli per vederci insieme nell’eguale costrutto, fummo l’erba che alla pietra nutrita si riserba il suo cespo bruciato. Dalle estreme radici, nell’impervio ogni parola salì di quanto a trattenerla c’era l’ansia d’averla pura, seria, vera nel segno da rimuovere la sola vergogna d’esser detta. Salvammo nell’asciutto, dagli inviti della corrente, il carcere incantato, la nostra sete che ci tenne uniti. Per un grido da rompere, il creato ancora è il suo costrutto ove s’ostina l’asino, il cardo, il segno della spina.
* A mio padre
Se mi tornassi questa sera accanto lungo la via dove scende l’ombra azzurra già che sembra primavera, per dirti quanto è buio il mondo e come ai nostri sogni in libertà s’accenda di speranze di poveri di cielo io troverei un pianto da bambino e gli occhi aperti di sorriso, neri neri come le rondini del mare.
Mi basterebbe che tu fossi vivo, un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria della tua voce che diceva ai figli: – Com’è bella la notte e com’è buona ad amarci così con l’aria in piena fin dentro al sonno – Tu vedevi il mondo nel plenilunio sporgere a quel cielo, gli uomini incamminati verso l’alba.
* Le Vittime
La storia fosse scritta dalle vittime altro sarebbe, un tempo di minuti, di formiche incessanti che ripullulano al nostro soffio e pure ad una ad una vivide di tenacia, intente d’essere. Gli inermi che si scostano al passaggio delle divise chiedono allo sguardo dei propri occhi la letizia ansiosa d’essere vinti, il numero che oblia la sua sabbia infinita nel crepuscolo. Dei vincitori, ai ruinosi alberghi del loro oblio, più nulla. Rimane chi disparve nella sera dell’opera compiuta, sua la mano di tutti e il fare che è del fare il tenero. È il nostro soffio che gli crede, il dubbio di perderlo nel numero, tra noi.
*
Vivi
Una casa da nulla, una ragazza alle persiane e il meriggio era dolce di vivere, d’aver speranze e paure.
Il meriggio era vapori che lavorano e gli uomini del canale che mostrano il bianco degli occhi, ma vivi.
Una casa da nulla pareti accostate fragile ma viva, e sera che lascia aperta la porta e s’ode la fontanina s’ode la lampada apparsa sulla tovaglia.
Non venga la notte, non venga la morte degli oziosi re di pietra, non venga la legge delle paure. Chi vive è leggero, è stanco in tutto il mondo.
Chi vive è senza gloria.
*
Isola
Avvicinarsi all’isola, a quel soffio marino ch’è nel lascito del cielo, e scoprirla di pietra, di silenzio nell’agrore dell’erba, nel relitto del lastrico squamato dai suoi scisti: questo è rabbrividire sul mio nome improvviso nel monito del vento. Più nessuno lo chiama, e l’esser solo a scala del mio sorgere, riemerso dal mio sparire all’avvistarmi, è spazio che l’aperto raggiunge per fermare, per chiudere alla stretta del suo scoglio. Il viaggio, l’amore, in quell’arrivo fermano il conto e il tempo, nello spazio il nome nel raggiungermi mi chiude.
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