ALFONSO GATTO — LA STORIA DELLE VITTIME — POESIE DELLA RESISTENZA — MONDADORI MILANO, 1966



Fummo l’erba

Certo, certo, la gloria ch’ebbe un fuoco
di gioventù rimesta tra le ceneri
il suo tizzo orgoglioso, ma noi teneri
di noi non fummo, né prendemmo a gioco
la vita come un’ultima scommessa.
Noi, di quegli anni facili, all’azzardo
delle fiorite preferimmo il cardo
selvatico, le spine. Dalla ressa
del giubilo scampati al nostro intento
d’essere sole e pietra, nelle mani
segnammo la tenacia del domani
da scavare nel tempo. Nello stento
d’essere soli per vederci insieme
nell’eguale costrutto, fummo l’erba
che alla pietra nutrita si riserba
il suo cespo bruciato. Dalle estreme
radici, nell’impervio ogni parola
salì di quanto a trattenerla c’era
l’ansia d’averla pura, seria, vera
nel segno da rimuovere la sola
vergogna d’esser detta.
Salvammo nell’asciutto, dagli inviti
della corrente, il carcere incantato,
la nostra sete che ci tenne uniti.
Per un grido da rompere, il creato
ancora è il suo costrutto ove s’ostina
l’asino, il cardo, il segno della spina.

*

A mio padre


Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.

Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.

Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
– Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno – Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.

*

Le Vittime


La storia fosse scritta dalle vittime
altro sarebbe, un tempo di minuti,
di formiche incessanti che ripullulano
al nostro soffio e pure ad una ad una
vivide di tenacia, intente d’essere.
Gli inermi che si scostano al passaggio
delle divise chiedono allo sguardo
dei propri occhi la letizia ansiosa
d’essere vinti, il numero che oblia
la sua sabbia infinita nel crepuscolo.
Dei vincitori, ai ruinosi alberghi
del loro oblio, più nulla.
Rimane chi disparve nella sera
dell’opera compiuta, sua la mano
di tutti e il fare che è del fare il tenero.
È il nostro soffio che gli crede, il dubbio
di perderlo nel numero, tra noi.

*

Vivi

Una casa da nulla, una ragazza alle persiane
e il meriggio era dolce di vivere,
d’aver speranze e paure.

Il meriggio era vapori che lavorano
e gli uomini del canale
che mostrano il bianco degli occhi, ma vivi.

Una casa da nulla pareti accostate
fragile ma viva,
e sera che lascia aperta la porta
e s’ode la fontanina
s’ode la lampada apparsa sulla tovaglia.

Non venga la notte, non venga la morte
degli oziosi re di pietra,
non venga la legge delle paure.
Chi vive è leggero,
è stanco in tutto il mondo.

Chi vive è senza gloria.

*

Isola

Avvicinarsi all’isola, a quel soffio
marino ch’è nel lascito del cielo,
e scoprirla di pietra, di silenzio
nell’agrore dell’erba, nel relitto
del lastrico squamato dai suoi scisti:
questo è rabbrividire sul mio nome
improvviso nel monito del vento.
Più nessuno lo chiama, e l’esser solo
a scala del mio sorgere, riemerso
dal mio sparire all’avvistarmi, è spazio
che l’aperto raggiunge per fermare,
per chiudere alla stretta del suo scoglio.
Il viaggio, l’amore, in quell’arrivo
fermano il conto e il tempo, nello spazio
il nome nel raggiungermi mi chiude.





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